Una, nessuna, centomila? La lingua italiana, il suo passato, il suo futuro.
Martedì 16 aprile, presso Il Samaritano di Caritas, “Progetto Donna: leggere, scrivere, lavorare” rende pubblica una lectio magistralis con la prof.Tronci dell’Università per Stranieri di Siena. Un momento per pensare all’italiano come alle nostre radici, da un altro punto di vista.
Siamo in un salone, un martedì pomeriggio. Le persone prendono posto, si guardano intorno e si predispongono ad ascoltare qualcuno che parla. Mi chiedo cosa le abbia spinte ad esserci. È un pubblico vario, molto colorato. Ci sono le studentesse del corso di italiano del “Progetto Donna: leggere, scrivere, lavorare”, organizzatore dell’incontro. Sono donne provenienti dai quattro angoli del mondo, alcune indossano abiti di terre lontane, alcune
hanno portato con loro la famiglia. Ci sono visi noti di insegnanti, di chi si muove nell’ambito professionale dell’educazione e della cultura. Ci sono anche visi sconosciuti, forse sono venuti per sentire parlare della loro vita in Italia da un altro punto di vista.
Il titolo dell’incontro riprende Pirandello: “Una, nessuna, centomila? L’identità dell’italiano, una lingua molteplice e accogliente.”. Certamente non è facile capire cosa aspettarsi. Si parla tanto ma si pensa poco allo strumento che ci permette di farlo: la lingua, facoltà di parlare e codice per comunicare tra persone che condividono una buona parte di cultura, di
territorio e di abitudini. Questo incontro, una sorta di lectio magistralis per le studentesse del corso di italiano di Progetto Donna, è stato pensato per coinvolgere chiunque si interessi all’argomento, per attenuare la ripetitiva distinzione “noi-voi, italiani-stranieri”, per discutere tra pari – ma con punti di vista necessariamente differenti – della lingua italiana. L’italiano, di
cui ci ricordiamo per impugnare battaglie ideologiche e che offre molte facce: quella dell’identità nazionale e quella della cultura italiana patrimonio del mondo, quella dell’imposizione come standard e quella del continuo flusso di parole prese e date in prestito da e ad altre lingue. Ancora, l’italiano dei voti a scuola e delle colorite espressioni popolari,
l’italiano dei certificati che decidono “chi è fuori e chi è dentro”.
L’impresa non facile di parlare di tutto questo a un pubblico eterogeneo, in poco più di un’ora, è stata affidata a Liana Tronci, docente di Sociolinguistica all’Università per Stranieri di Siena. Come in una favola, partiamo da un bosco: è la “selva” di Dante e anche quella dei
dialetti italiani. Da quando si inizia a riflettere sulla lingua italiana (sono passati quasi mille anni), si percepisce immediatamente che c’è una grande moltitudine di varianti, di influenze, che genera vere e proprie lingue diverse all’interno di quella che poi sarebbe diventata un’unica nazione. Nel tempo, però, il modello di Dante, Petrarca e Boccaccio – le “tre
corone”- diventa sempre più stabile nell’immaginario di una lingua di prestigio, con l’eleganza sufficiente a rappresentare chi la parla, fuori e dentro la penisola italiana. Così l’italiano è diventato sempre più standard e sempre più simile al toscano, ma non quello di oggi, così irriverente e scanzonato, ma quello del 1300. Sarebbe comunque un errore
pensare che l’italiano, così come qualsiasi altra lingua, sia un oggetto che si mette in una campana di vetro e non si fa influenzare da nulla. Già prima di Dante, le lingue che si parlavano in Italia, si portavano dietro degli stralci delle lingue delle popolazioni che abitavano la penisola prima del grande avvento del latino: celti, etruschi, cartaginesi. E anche il latino aveva preso in prestito parole dai greci, un popolo che affascinava particolarmente i romani, e dai vari popoli che entrarono a far parte dell’Impero. Dopo la lingua latina, altre dominazioni, influenze, attività commerciali hanno costruito l’italiano come lo conosciamo oggi. Dalle lingue germaniche provengono molte parole che hanno a che fare con la guerra, la parola “guerra” stessa, ad esempio. Dal greco-bizantino e dall’arabo le
parole del gergo marinaresco (gondola) e di prodotti legati al mondo della cucina (zucchero).
Oggi pensiamo di essere immuni a influenze di altre culture e tentiamo di difendere, se di lotta stiamo parlando, la lingua italiana da altre lingue che si impongono. Si pensi all’inglese, con tutti i termini legati alla tecnologia, o al giapponese, con le sue suggestioni culinarie. Si pensi alle minoranze linguistiche che in Italia hanno uno status giuridico (albanese, sardo, ladino, per citarne alcune) e a quelle che ancora non lo hanno, perchè frutto delle migrazioni degli ultimi anni (wolof, arabo, cinese). L’Italia ha nel suo DNA la moltitudine linguistica, sia per cultura, che per posizione geografica, che per ragioni storiche. Questa caratteristica per i linguisti è un privilegio dato anche da “certe proprietà e qualità del popolo italiano” ( G. Rohlfs, L’Italia dialettale dal Piemonte in Sicilia . In Studi e ricerche su lingua e dialetti d’Italia, Sansoni, Firenze, 1972, pp.26-31.). Per altri, non linguisti, è un pericolo che può portare alla disgregazione dell’identità italiana. Forse si potrebbe discutere di come la lingua italiana sia una radiografia, senza fronzoli e forzature, per capire la cultura per come si è costruita, nei secoli, grazie al contributo degli italiani, anche di quegli italiani che ancora non sapevano – e non sanno – di esserlo. Forse si potrebbe rispondere a chi si scandalizza di influenze straniere che, anche in campo linguistico, non sta succedendo nulla di nuovo: è scritto nelle parole che usiamo che l’Italia ama fondersi con tutto ciò che la rinnova e la rende unica.
La professoressa Tronci conclude la sua lezione tornando nel bosco da cui era partita, un bosco attuale ma certamente non troppo diverso da quello di Dante. Lo fa con una citazione del poeta Giorgio Caproni che mi fa piacere riproporre anche a conclusione di queste righe:
“L’ultima mia proposta è questa: se volete trovarvi, perdetevi nella foresta.”
Francesca Bianco, Insegnante